In Sudafrica alla comunità di Bulungula con gli xhosa

Alla stazione di servizio di Mthatha c’era la macchina che mi avrebbe portato a Bulungula con l’autista e un altro di loro, del villaggio Xhosa. Purtroppo non ricordo i nomi. Ricordo però la mia agitazione, mista alla certezza, che mi faceva sentire di essere in buone mani.
Tre ore di strada: una parte asfaltata e il resto sterrata, tra rondavel, le loro capanne, blu acqua di mare o rosa: i colori della natura mi avrebbe detto la mia guida speciale al villaggio, una ragazza di ventitré anni. Gli Xhosa – dove Xhosa lo pronunci schioccando la lingua e poi pronunciando la parola –  sono profondamente legati alla natura, agli animali, alle piante. E ne hanno grande rispetto.
Bulungula è sull’oceano, sulla Wild Coast del Sudafrica, e per arrivarci passi su pendii scoscesi in mezzo alle colline, tra capre, qualche mucca e asini di tutte le età e cani, lasciati al loro destino o al destino dei loro padroni. E campi da calcio: da che mondo è mondo. Ci sono capanne più povere ed altre meno. Quando sono arrivata il panorama era stato splendido splendente. E selvaggio. Grande accoglienza, apertura e ho imparato da subito ad apprezzare la generosità e la ricchezza di persone molte legate alle loro tradizioni e al loro mondo, ma consapevoli che ospitare gli altri’ non vuol dire snaturarsi, ma cercare un’integrazione, anche se difficile ed improbabile talvolta. Una grande lezione per tutti, in giorni come questi, dove in Europa ed in Italia, si urla all’invasione dell’immigrato e dello straniero.
Quello che mi ha colpito di più è come tutti gli spazi comuni – cucina, bagni, sala da pranzo – fossero condivisi tra visitatori e persone della comunità. Luoghi senza barriere, dove ci si siede sullo stesso divano, allo stesso tavolo e c’è lo spazio mentale e fisico per conoscersi. Incontri veri e propri. Ricordo soprattutto le tante donne. Persone ricche e profonde. Un incontro forte, intenso, indimenticabile è stato quello con A. la giovane, bellissima ed energica ragazza della reception.

donna a Bulungula

Ho dormito nel mio rondavel rosa con vista sull’oceano. Era buio pesto. Quando era buio lì. Sull’oceano. Tra i rondavel rosa.
Si sentiva solo il rumore delle onde che si infrangevano sulla spiaggia bianca.
Come descrivere, se non con queste parole: romantico e di autentico lusso nella sua semplicità immensa.

Quella mattina abbiamo fatto visita all’erborista del villaggio, nel mentre la mia guida mi ha fatto familiarizzare con alcune semplici parole xhosa di uso quotidiano.
L’erborista, ixhwele, è l’uomo medicina, pratica la magia ma non è uno stregone – quello che nella cultura Xhosa fa magia nera. Ha un ruolo centrale nella comunità: debella gli spiriti maligni, ma soprattutto si occupa di salute  e conosce le erbe e le radici. Usa una fisarmonica per comunicare con gli antenati e spiriti della natura, mentre con un amuleto debella quelli cattivi.

Bulungula, Sud Africa, Soultravelling

L’incontro è interessante, anche se a tratti imbarazzato. A volte non è facile capirsi, ma non è solo una questione di lingua. C’è però attenzione e rispetto reciproco.

Il clou della giornata deve ancora venire ed è del tutto inaspettato. La mia guida mi chiede se voglio andare ad una festa.
Nella mia totale incredulità ci troviamo di fronte ad una capanna brulicante di Xhosa di tutte le età e sesso: bambini, giovani, vecchi. Uomini e donne. Musica ad alto volume, dove le discoteche delle mie parti, di Riccione, non tengono il confronto. Danze serrate, stretti, strettissimi. Corpi anche pesanti ma flessuosi, flessuosissimi. Urla e incitamenti. Non è stato facile sedersi lì in mezzo a loro, ma si è rivelata un’esperienza unica.
L’ingresso alla festa include il drink: scelgo una birra, che decido poi di offrire; la musica si ferma e la mia giovane amica  annuncia a tutto il pubblico presente, che quella bottiglia la stavo offrendo io. Applauso immeritato. E grande emozione.
Comincio a far foto e video: in generale amano essere ripresi e riguardarsi, a parte alcuni degli uomini, che mi chiedono di non comparire. Le danze proseguono: signore insospettabili si buttano al centro del rondavel nella piccola, ma gremita pista da ballo; battono il ritmo discotecaro coi piedi nudi, sul nudo terreno.Poi ci sono le bimbe, coi loro abitini, sorridenti ed emozionate: mi chiedono foto e video a più non posso, vogliono guardarsi e riguardarsi con sempre nuovo stupore.

Bulungula, Sudafrica,

Poi c’è la xhosa beer, la birra xhosa, umquombothi, preparata da loro con mais, sorgo, lievito e acqua e fatta fermentare per una notte. La assaggio con timidezza: ma è ottima.
Sono frastornata dai ritmi, dai visi, dai corpi e dalle diversità: poi c’è il cagnetto del villaggio che mi ha accompagnato per tutto il giro, anche nella capanna delle danze. Si stringe a me per cercare conforto e riparo. La ragazza, il meticcio ed io riprendiamo la strada verso i randavel sull’oceano, quando è quasi il tramonto.

Villaggio tramonto Bulungula
La giornata è volata e, mio malgrado, il giorno dopo ripartirò e lascerò i miei nuovi amici.
La strada del ritorno alla stazione di servizio Mthatha Shell è molto diversa da quella di andata: io sono molto diversa.
Questa volta, raccogliamo tante persone, di nuovo tante donne, che chiedono un passaggio per andare nel villaggio vicino, a lavorare o a fare la spesa. Gli africani fanno chilometri e chilometri a piedi, partono da casa alle prime luci della mattina e non sanno quando potranno fare ritorno.
Quello che per te è lontano, per loro è vicino: così ho trovato gentilezza e disponibilità tutte le volte che mi perdevo e mi fermavo a chiedere la strada. Ho capito però che chiedere se ci vuole tanto ad arrivare alla meta o se è vicina è perfettamente inutile ed un azzardo: per loro è sempre tutto lì, lì dietro a quella curva, a portata di piede! Per me no. Punti di vista diversi, così relativi ma assolutamente lontani. Fa pensare questa percezione così opposta dello spazio e del tempo.
Credo che la loro casa sia la strada: fatta di incontri, chiacchiere, fatica, sorrisi e pazienza. Sì, la pazienza, per esempio, che hanno avuto con me, l’ospite venuto a trovarli da lontano, ospite che onorano, chiunque egli o ella sia. E quindi siamo rimasti lì, tutti insieme, a bordo strada e per più di un ora, ad aspettare il minibus che mi avrebbe riportato alla civiltà. Su quella jeep, modesta ma solida, c’erano mamme, bimbi e bimbe che scendevano e andavano a giocare o a fare pipì nel campetto vicino; c’era il mio autista, di cui ho imparato a capire i silenzi, le piccole grandi attenzioni, la grande umanità (come quando abbiamo visto l’asino rudemente investito proprio in mezzo alla strada). Erano seduti sui sedili posteriori o nel cassone della jeep con il mio mega zaino tra le gambe. Salutarli è stato commovente.
Ho detto loro con convinzione che ci saremo sicuramente rivisti.

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